Siamo cresciuti con l’idea che il tartufo sia un tocco finale. Una lamella sottile su una crema di stagione, un filo d’olio profumato aggiunto all’ultimo secondo. Una carezza scenografica, certo.
Ma è davvero tutto lì?
Assolutamente no.
Il tartufo merita un ruolo centrale, non una comparsata da fine piatto.
Ecco perché oggi parliamo di vellutate al tartufo, non con il tartufo.
La differenza?
È sottile, ma radicale.
Una vellutata con il tartufo si presenta bene, fa la sua figura.
Una vellutata al tartufo, invece, nasce già con un’identità precisa. Non si limita a vestirsi di eleganza: la incarna.
Nel primo caso, il tartufo è un invitato speciale.
Nel secondo, è il cuore pulsante del piatto.
Quando il tartufo viene integrato nella base stessa della vellutata — lavorato, emulsionato, fuso con ingredienti delicati come patata, cavolfiore, topinambur o pastinaca — accade qualcosa di magico:
il profumo non si limita a salire al naso, ma si intreccia al palato.
Il sapore non decora: domina.
È un modo nuovo di intendere la vellutata, ma anche il più autentico.
Un ritorno a una cucina in cui il protagonista non è la guarnizione, ma l’essenza stessa del piatto.
Allora basta con le fettine di tartufo messe solo “per bellezza”.
È il momento di cucinare seriamente col tartufo.
Di farlo parlare, sciogliersi, esprimersi davvero.
Perché il tartufo, quando diventa sostanza, non è più un lusso.
È cultura. È gusto. È esperienza.
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